Or volge un anno ... vien da dire. È trascorso ormai un anno da quando Maria Francesca Tiepolo, per molti di noi – e magari per gran parte di quelli che hanno avuto l’onore, il privilegio, e pure il piacere, di averla conosciuta e frequentata – semplicemente “il Direttore”, ci ha lasciati. Ma si potrebbe anche dire solamente: è un anno che “il Direttore” non c’è più. “Direttore” di cosa, o anche di chi, credo sia assolutamente inutile specificarlo, almeno per noi dei Frari. Se n’è andata in punta di piedi, in perfetto silenzio, come quando, da “Direttore”, arrivava alle nostre spalle e ci sorprendeva intenti a leggere, o a tentare di capire, uno degli infiniti documenti conservati in Archivio, o assai di rado la Gazzetta dello sport – specie al lunedì mattina – o magari qualche altro quotidiano meno frivolo e di parte. E allora, il suo aiuto, il suo contributo alla lettura o alla comprensione, non mancavano mai, come pure, quand’era il caso, un rimbrotto amichevole e autorevole al tempo stesso, ma sempre fermo e deciso; e così ci rimettevamo immediatamente entro il solco del corretto e doveroso percorso “archivistico”.
Direttore dell’Archivio di Stato di Venezia dal 1977 al 1990, ma soprattutto “collega archivista” fino all’ultimo dei suoi giorni al San Lorenzo, come lo era stata prima di assumere l’incarico direzionale, e come lo sarà, almeno per tutti noi che ci siamo formati professionalmente sotto la sua guida e grazie a lei, e che abbiamo potuto godere del suo insegnamento e anche – perché no? – della sua amicizia. Ma non vorrei parlare di Maria Francesca Tiepolo dal punto di vista professionale e accademico, ci saranno altri tempi e altri luoghi per questo; vorrei piuttosto lasciar affiorare nella memoria coincidenze e ritorni, che mi toccano personalmente e che mi inducono alla silente riflessione.
Ho conosciuto Maria Francesca Tiepolo, proprio in occasione del mio primo giorno di servizio ai Frari, nel maggio del 1979, mentre stava preparando una delle prime mostre documentarie da lei volute e curate in Archivio, quella sulla difesa della sanità a Venezia, in concomitanza con l’altra grande mostra su “Venezia e la peste” organizzata dal Comune di Venezia più meno in quei giorni, e sulle prime mi domandò proprio cosa sapessi – quanto a fonti letterarie e documentarie – intorno alla peste di manzoniana memoria. Ecco, ora a più di quarant’anni da quell'incontro, mi ritrovo a chiedermi che cosa lei avrebbe potuto pensare, se fosse rimasta ancora qualche mese tra noi, di questa nuova e devastante epidemia, e soprattutto quali spunti documentari e archivistici sarebbe stata in grado di cogliere e organizzare in una possibile riedizione contemporanea della mostra di quell’estate del 1979, la mia prima estate ai Frari. Così come mi viene da ritornare e ragionare sul rapporto – mai celato o taciuto – che legava Maria Francesca Tiepolo ai chiostri, soprattutto a quelli amati oltre ogni dire dei Frari, da quello della Trinità e quello di Sant’Antonio, ma anche a quello di San Nicoletto, intravisto nelle sue sfumate persistenze piuttosto che nella sua palese materialità, e per questo, nella sua marginalità, sconosciuto ai più, eppure per lei carico di affetti e di significati. Ma più ancora la riflessione torna al chiostro di San Lorenzo, nel quale si trovò a trascorrere gli ultimi anni della sua vita, quando ormai la salute declinava e i giorni a lei concessi volgevano inesorabilmente al termine, sognando magari di risvegliarsi tra i suoi libri, nelle sue stanze di Palazzo Tiepolo a Campo San Polo – come ebbe a raccontarmi un giorno – mentre una nota di contenuta tristezza velava i suoi occhi, stanchi eppure ancora belli e vivaci.
Durante quel primo incontro, ricordo di averle chiesto come avessi dovuto rivolgermi a lei, tenuto conto del rapporto gerarchico che intercorreva tra un giovane archivista di prima nomina e il Direttore dell’Istituto; come avessi dovuto chiamarla, se “Direttore”, o piuttosto “dottoressa”, oppure “signorina”. Lei mi rispose, con disarmante semplicità, più o meno con queste parole: “Io la chiamerò per nome, che è lo stesso mio nome, solo declinato al maschile, perché mi piace e perché mi ricorda come mi chiamava la mia mamma, e le darò del tu; se lei mi chiamerà “signorina”, non mi dispiacerà.” E così è stato per oltre un quarantennio, anche con il venir meno del rapporto gerarchico, per forza di cose diluito dagli anni di comune lavoro, dall’amicizia e dall’affetto reciproci, e ovviamente dal suo inevitabile e mai del tutto metabolizzato e gradito collocamento in quiescenza. Solo negli ultimi tempi, dopo l’ingresso nella casa di riposo a San Lorenzo, e cedendo alle sue accorate insistenze, sono faticosamente riuscito a passare darle del tu e a chiamarla Franca, come lei voleva, seppure con non poco imbarazzo e altrettanto disagio.