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IL CONVENTO

Una storia lunga più di settecento anni accompagna la "Ca' Granda" dei Frari, questo vasto complesso monumentale che si fa spazio sin dalle origini nel cuore della città - è presente con chiesa, campanile e stagno circostante nell'antica rappresentazione di Venezia che si conserva in un codice della Biblioteca Marciana, datata 1346 - e che alla vita di questa città fedelmente si rapporta, nel corso di un secolare passato fatto di antiche glorie e di recenti dominazioni straniere.

E' quasi un rapporto di specularità, di rispecchiamento che risale alle origini: in parte ancora assorbite dalla leggenda - che vuole l'erezione del convento direttamente attuata per volontà di san Francesco - e in parte modellate su quella realtà urbana così particolare che è la realtà veneziana, così come si viene definendo, nel corso di quei decenni, in un progressivo recupero di terra emersa ancora contornata da stagni e piscine.

Questo raccontano infatti i documenti che qui si conservano e che parlano di un primigenio insediamento dei fraticelli in un'area paludosa con al centro un lacus, denominato Badovarius o Badovariorum (dal nome della famiglia Badoer proprietaria allora di un palazzo a San Pantalon e di vasti terreni intorno, ubicati tra San Stin, San Tomà e San Pantalon: un'area posta al confine tra acqua e terra, con molini e vigneti, percorsa da rii, intersecata da calli, una costeggia il lacus Badovarius (calle communis que discurrit in lacu), un'altra corre lungo il rio di San Stin.

In tre testamenti è individuata la possibile, forse non mai ulteriormente precisabile, data di nascita di questa comunità francescana: con donazioni fatte in punto di morte, Achilia Signolo nel 1227, il doge Ziani l'anno successivo, e ancora una donna, Regina Corner, nel 1231, dispongono lasciti in denaro per i Minores presenti in città. Fino a questo momento però non c'è ancora un luogo, un sito, una chiesa in funzione dei quali destinare questi lasciti.

E' con la donazione di Giovanni Badoer, rogata nell'ottobre del 1234, di una casa e di una terra definita vacua, posta in confinio Sancte Thomae, che ci si trova di fronte alla prima esplicita testimonianza di una comunità stabilmente insediata: si parla infatti di teritorio et eclesia ... fratrum minorum (ubi) habitant.

In un libro del convento del 1615, questa donazione viene registrata con molta cura:
...donatione che fa messer Giovanni Badoaro da San Giacomo dal Orio, la qual è molto bella: si debbe salvare particolarmente.
Nel giro di pochi anni la comunità aumenta di numero e si estende nello spazio: si moltiplicano i lasciti testamentari e anche gli atti di compravendita.
Fervono i lavori di interrimento, prosciugamento e imbonimento: le acque del lago vengono incanale in un rio, che mette in comunicazione il rio di San Stin con quello di San Pantalon, e del quale si ricorda pochi anni più tardi: rivus qui quondam fuit lacus Badovarius (documento del 1242).
Alla fine del secolo, nel 1291, i fraticelli ottengono di poter interrare un altro rio, che segnava la linea di demarcazione tra due proprietà della famiglia Badoer, ora acquisite entrambe ai fratres loci Sancte Marie:
... possint claudere predictum rivum et ipsum alterare et alterari facere.

I tempi sono ormai maturi per la consacrazione ufficiale: la posa della prima pietra si celebra il 28 aprile del 1250, alla presenza del vescovo di Bologna, di quello di Treviso e di Venezia, e del delegato pontificio, il cardinale Ubaldini. Alla costruenda chiesa viene imposto il nome di Santa Maria Gloriosa.
Contestualmente all'edificazione della chiesa, procedono anche i lavori per l'ampliamento del convento. E' una comunità che continua a crescere e gli spazi ora risultano troppo limitati: poiché sit strictus locus ipsorum fratrum, si dispongono lasciti in denaro affinchè i fraticelli
... possint adampliare locum suum (così recita un testamento del marzo 1271).

I locali vanno posizionandosi intorno al grande chiostro detto esterno perché aperto al pubblico accesso, o dei morti, perché adibito alle sepolture, o infine della Trinità, e al più piccolo chiostro detto interno o di Sant'Antonio.
Il disegno architettonico di questi chiostri non è casuale; il modello dei conventi francescani si richiama a quello di monasteri cistercensi, che una disposizione del Concilio Ecumenico Lateranense IV del 1215 prevedeva a forma di quadrilatero, con al centro un chiostro circondato da un porticato lungo i quattro lati.
Per il chiostro della Trinità le dimensioni attuali parlano di m. 31 x 34; il porticato è sostenuto da 44 colonne e archi a tutto sesto che sorreggono una terrazza con balaustre.

L'ulteriore ornamentazione del chiostro è opera settecentesca: fa fede una stampa di Vincenzo Coronelli (non datata ma ascrivibile all'anno 1709 circa) dove è presente solo la vera da pozzo, l'arcone che la sovrasta (opera di Giovanni Trognon) e la grande scultura che lo abbellisce (opera dello scultore Francesco Penso detto Cabianca) furono commissionate dal padre Antonio Pittoni nel 1712. Vennero realizzate dal Cabianca anche le statue posizionate sopra le balaustre, raffiguranti otto personaggi dell'Ordine, e i quattro angeli disposti nella corte del chiostro: sono gli anni tra il 1712 e il 1715.
Attigui al chiostro maggiore sorgono il chiostro di Sant'Antonio e il conventino di San Nicolò: le vicende di questi due complessi risultano strettamente collegate.
Il convento di San Nicolò detto "della lattuga" viene edificato per volontà del procuratore di San Marco Nicolò Lion, che nel suo testamento del 13 febbraio 1354 cosè dispone:
... volo dictum locum esse fundatum in loco Sancte Marie fratrum Minorum de Venetiis.

Si deduce dai documenti che il nuovo complesso conventuale nasce in prosecuzione del chiostro di Sant'Antonio, che a metà del secolo XIV quindi era già stato edificato. Anche per questo conventino sono attestati lavori continui di adattamento; che diventano di vero e proprio rifacimento intorno al 1760 - si parla di rifabbrica del chiostro e della relativa terrazza - a seguito dell'incendio verificatosi nel 1746.

Per ritornare al chiostro di Sant'Antonio, si presenta oggi a forma trapezoidale con un porticato sorretto da 32 pilastri, senza terrazza, e al centro un pozzo, sormontato da un arco su cui poggia la statua di Sant'Antonio, realizzata nel 1689 dal Cesena.
Intorno al chiostro principale, quello della Trinità, dunque, sorgono i locali più importanti del convento: la sala del capitolo, il refettorio, le cucine.
Di una antichissima sala del capitolo si ha notizia già a partire dagli anni 1232-33; di una sala, cosiddetta "nuova" da un documento del 1308; ad una sala "nuovissima" (ovvero l'attuale) si fa cenno nel testamento del doge Francesco Dandolo del 1339 che indicò quel luogo per la sua sepoltura.

Di fronte alla sala del capitolo sorge il refettorio antico, dall'agosto 1989 sala di consultazione per gli studiosi.
L'estensione della sala rimanda ai tempi in cui popolosa era la comunità dei fraticelli, che annoveravano tra le loro attività una scuola di teologia, e ospitavano anche circa quindici novizi (i "fratonzelli"), ragazzi di 15-16 anni. Molte le testimonianze in proposito: il testamento di una donna, Franceschina di San Polo, del giugno 1398, dispone un lascito per acquistare un paio di sandali per ciascuno dei "fratonzelli noviçi dei frati Menori". Accanto ai novizi, vivevano ai Frari anche ragazzi più giovani, di 10-14 anni: sono i "fantolíni", ovvero gli aspiranti più piccoli, che cominciavano la loro formazione prima di essere ammessi al noviziato. Anche per i "poveri fantoli frari" di Santa Maria, "li quali non passa etade de ani XIIII", vengono destinate somme di denaro dalla carità dei parrocchiani.
Per quanto afferisce al refettorio, scarse sono le testimonianze che risalgono ai tempi più antichi: solo un documento relativamente tardo (1369) ne parla in modo esplicito, citando i lavori da eseguire in un locale situato tra il veccho dormitorio ed il refettorium nostrum.

Compensa la carenza di documenti un'immagine di singolare precisione, un'incisione realizzata da Vincenzo Coronelli (1709 circa), dove la sala appare accuratamente decorata con affreschi alle pareti e, sullo sfondo, un'Ultima Cena, soggetto d'altra parte ricorrente in quegli ambienti. Al centro, recita la didascalia, sono collocate "gran colonne marmoree tutte d'un pezzo"; lungo le navate, le antiche finestre gotiche risultano già coperte e sostituite dalle finestre seccentesche.
La vastità stessa della sala la condanna ad un precoce abbandono, e la isola progressivamente dalla vita attiva del convento: già nel 1661 se ne parla come di magazzino affittato "che era refettorio vecchio nel claustro anteriore".
Più di un secolo prima, avevano preso avvio i lavori per il nuovo refettorio, più piccolo, più interno, denominato "d'inverno", che avrebbe soppiantato definitivamente quello della Trinità. Cantieri e lavori accompagnano in modo costante, per tutto il Quattrocento e il Cinquecento, la vita della comunità: lavori di rifacimento o di abbellimento, che interessano soprattutto la chiesa e i chiostri, solo in parte il convento, come nel caso di refettorii. Ma i tempi stanno cambiando: e i secoli a venire sono segnati da un progressivo contrarsi delle risorse e del numero delle vocazioni.
Nella seconda metà del Settecento i segni del degrado si fanno più macroscopici: in conseguenza al crollo dell'ala centrale del convento, i Provveditori sopra monasteri richiedono un sopralluogo all'architetto Bernardino Macaruzzi. Correva l'anno 1779 e desolante è il quadro che emerge dalla relazione dell'organo tecnico: "tante e varie (sono) le stanze affatto resesi inutili all'abitato di detti reverendi padri". Ma la cesura più profonda che segna in modo irreversibile la vita di questa comunità si attua all'arpertura del nuovo secolo, l'Ottocento.

Nell'anno 1810, con regio decreto dell'allora sovrano del Regno Italico, Napoleone Bonaparte, il convento di Santa Maria dei Frari - come decine di altri centri monastici e conventuali della città - cessa la sua esistenza, cioè viene soppresso.
Vengono repentinamente ed improvvisamentre recisi i tanti fili che nel corso di quasi cinque secoli erano venuti intrecciandosi in questi locali; vicende di uomini e cose che la storia aveva qui pazientemente sedimentato e che nel giro di pochi mesi vengono disaggregate o frantumate.
Ma se per molti conventi veneziani le leggi napoleoniche segneranno veramente la parola fine (un esempio per tutti resta Santa Maria dei Servi "smontata" pietra su pietra), per la Ca' Granda dei Frari la storia ha in serbo un destino ben diverso che le permette di attraversare, pur con indubbie, dolorose asportazioni e mutilazioni, gli anni cruciali dell'indemaniazione e ritrovarsi poi al centro di un'operazione appassionante e quasi eroica condotta contro il tempo e l'incuria degli uomini.

Tra il 1815 e il 1822, forti dell'aulico rescritto del 13 dicembre 1815 che decreta l'istituzione di un Regio Archivio Generale con sede ancora da definirsi; scartata l'ipotesi di soluzioni alternative e concorrenti quali San Zaccaria e San Lorenzo; procedendo con celerità e competenza nella titanica impresa di recuperare gli archivi della Serenissima, sfrattati da Palazzo Ducale, dalle Procuratie marciane, e dai palazzi di Rialto, ormai membra disiecta di quel corpus un tempo giuridicamente sovrano qual era la Repubblica di Venezia, tra il 1815 e il 1822, dunque, nello spazio concitato di pochissimi anni, si raggiunge l'obiettivo: lo stabilimento dell'Archivio Generale nella sede dell'ex convento di Santa Maria dei Frari.
Presiede a questa gigantesca impresa Iacopo Chiodo, figura emblematica e magistrale: il suo sogno - scrive all'Imperatore d'Austria nel 1815 - di salvare la memoria gloriosa di questa città "onde facilmente ed utilmente possa servire alle ricerche del Governo, alle occorrenze dei sudditi, alla istruzione de' politici, alla meditazione de' filosofi, al lavoro degli storici", si è compiuto.

A questa prima fase epocale subentreranno per l'Archivio, nel corso della sua storia ottocentesca, altri e diversi momenti, altri percorsi culturali, orientati da una parte verso una progressiva apertura al pubblico, dall'altra pilotati sul fronte interno, quello dell'ordinamento e dell'inventariazione dei fondi archivistici. Dalla cesura di inizio secolo, per Santa Maria dei Frari si apre dunque un capitolo nuovo di storia civile e cittadina che prosegue fino ai giorni nostri: a fronte della dispersione dei suoi molti tesori e manufatti d'arte, prosegue, a partire dal secolo scorso per arrivare a quello attuale, l'acquisizione di un patrimonio non meno glorioso: "le preziose carte" delle magistrature venete, e poi via via della Municipalità, dei governi austriaco, francese e poi ancora austriaco, e infine del riunificato Regno d'Italia, fino a riempire i quasi 300 locali francescani.

La storia più recente, quella degli ultimi vent'anni, racconta di un intrecciarsi di vicende: parla del recupero di ambienti progressivamente sottratti all'antico degrado, a cominciare dalla sala di studio e dai locali ubicati al piano terra, per continuare con le cucine - sono i lavori più recenti - che occupano un'area di 800 mq, cui vanno aggiunti circa altri 400 mq di area scoperta. Dall'altra, questa storia racconta di una sfida che si sta conducendo giorno per giorno per adeguare impianti e strutture alla normativa europea sulla sicurezza nel rispetto di questo prezioso tessuto architettonico.
[A. Schiavon]


IL CHIOSTRO DELLA TRINITÀ

Il chiostro della Trinità è uno dei due chiostri monumentali intorno a cui si dispone il vasto complesso architettonico dell'ex convento francescano di S. Maria dei Frari, uno degli edifici più cospicui della città di Venezia. La fabbrica, di origine duecentesca, più volte ricostruita e ampliata, fu avocata al Demanio nel 1810 a seguito delle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi e nel 1817 fu assegnata dal governo austriaco quale sede all'Archivio generale Veneto - oggi Archivio di Stato di Venezia - istituito nel 1815.

Addossato al fianco settentrionale della basilica, il chiostro, di forma pressoché quadrata (m. 31 x 34), è circondato da un porticato cinquecentesco ad archi a tutto sesto che sorreggono una terrazza balaustrata. La ricca decorazione scultorea è invece opera dell'inizio del Settecento: l'arcone che incornicia e sovrasta il pozzo è retto da colonne binate e ornato dal gruppo scultoreo che raffigura la Trinità in gloria ed è fiancheggiato dalle statue di san Pietro e san Marco; agli angoli sono i quattro arcangeli; le otto sculture della terrazza rappresentano invece santi dell'ordine francescano.

Mentre non sono ancora emersi dalle fonti dati certi sulla fase cinquecentesca della costruzione del chiostro e sull'attribuzione della sua architettura, documenti d'archivio consentono invece di datare con certezza le opere di decorazione, promosse dal padre maestro Antonio Pittoni, come ricordano anche alcune incisioni coeve di Vincenzo Coronelli, il celebre cosmografo francescano vissuto nel convento dei Frari. Nel 1712 fu infatti stipulato il contratto con il tagliapietra Giovanni Trognon per l'erezione del grande arco e il restauro del pozzo e per l'esecuzione delle statue che, dalle note di pagamento, risultano essere opera dello scultore Francesco Cabianca. I lavori proseguirono con la realizzazione del selciato ornato da listelli di marmo che formano un motivo geometrico ottagonale (di cui si conserva il disegno che funse da modello) e si conclusero nel 1715.

L'apparato decorativo è leggibile dal lato occidentale del chiostro, sul quale prospetta la sala capitolare del convento, le cui finestre archiacute appartengono alla fase trecentesca di costruzione dell'edificio. Dirimpetto, il lato orientale è quasi interamente occupato dal refettorio d'estate, ora sala di studio dell'Archivio, grande aula quattrocentesca suddivisa longitudinalmente da cinque colonne, tre in pietra d'Istria e due in granito verde (quasi certamente provenienti da una costruzione tardo-antica o bizantina) e coperta da volte a crociera.

Il lato meridionale è delimitato invece dal corpo di fabbrica che divide il chiostro della Trinità dal secondo chiostro dell'ex-convento, anch'esso cinquecentesco, denominato di Sant'Antonio, per la statua che ne orna il pozzo. In quest'ala dell'edificio fu costruito, alla metà del Cinquecento, un secondo refettorio - il cosiddetto refettorio d'inverno - di dimensioni inferiori al più antico. Quest'ultimo, non più utilizzato, almeno dal Seicento fu ridotto a magazzino, al pari di altri locali del convento, molti dei quali prospicienti il chiostro, affittati appunto come depositi o, ai piani superiori, come sedi delle riunioni di confraternite di devozione e associazioni.

Per il soggetto della decorazione scultorea il chiostro ha assunto la denominazione di chiostro della Trinità, ma finché l'edificio fu sede del convento francescano era comunemente noto come chiostro esterno, perché accessibile anche ai fedeli, o dei morti, in quanto vi si trovavano numerose arche e sepolture. Il pubblico accesso era legato, oltre che alla devozione per le immagini della Madonna delle Grazie e della Madonna del Pianto, cui era dedicata una cappella che si apriva nel lato occidentale del chiostro, anche dall'uso pubblico dell'acqua del pozzo, ribadito nel 1712.

Il chiostro era anche attraversato annualmente dalla solenne processione ducale nel giorno di san Rocco: il doge infatti, dopo essersi recato nella vicina chiesa dedicata al santo, entrava nel chiostro passando dal giardino del noviziato del convento, e da qui, attraverso la porta ancora esistente, accedeva alla chiesa dove sostava in adorazione del Santissimo Sacramento prima di rientrare a Palazzo Ducale.

L'uso da parte dei francescani di concedere il permesso di seppellire i defunti è attestato per il primo chiostro del convento fin dal Duecento. Nel Settecento si contavano ormai centinaia di arche e tombe, molte delle quali con iscrizioni non più leggibili. Oltre a molte famiglie patrizie avevano infatti qui la loro sepoltura anche i confratelli di scuole di devozione, scuole nazionali o di arti, come i confratelli delle Scuole di Sant'Antonio e della Beata Vergine della Concezione dei Frari, quelli della scuola degli Albanesi a S. Maurizio e della scuola di S. Michele dei 'bocaleri'. Nel 1754 per ragioni di salubrità le sepolture vennero otturate: ne rimane però testimonianza in alcune lapidi ancora murate nelle pareti o disseminate sotto il portico. Tra queste si segnala, sul lato nord, il trecentesco monumento funebre di Guido da Bagnolo, medico del re di Cipro e uno degli aristotelici che dibatterono con Petrarca e furono da lui confutati nel De sui ipsius et multorum ignorantia: in forma di edicola ritrae il defunto inginocchiato davanti alla Vergine, presentato da san Prospero, patrono di Reggio, città di cui era originario.
[P. Benussi]

 

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