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Le fonti pubbliche originali veneziane più antiche sono in larga misura andate perdute, distrutte nell'incendio del 976, per destino comune al palazzo del doge e alla chiesa, così come ci è pervenuto solo un numero esiguo di originali prodotti tra XI e XII secolo.
A partire dal Duecento - mentre l'antico comune Veneciarum assumeva fisionomia più definita nelle istituzioni, nelle leggi e nella cancelleria - si affermò la prassi di trascrivere a registro i documenti di maggiore rilievo, forma che dai trattati internazionali (pacta) si estese prima alle deliberazioni dei consigli, per divenire in seguito una procedura adottata, man mano, da tutti gli organi pubblici e mantenuta fino alla caduta della Repubblica (12 maggio 1797).
I pacta conservano copia dei trattati internazionali tra Venezia e l'Impero carolingio e l'Impero bizantino a partire dall'840.
La cancelleria veneziana, pur essendo senza eccezioni subordinata al Cancellier grande, incarico di enorme prestigio e delicatezza, era suddivisa in cancelleria inferiore, cancelleria ducale e, dal 1402, cancelleria secreta.
La cancelleria inferiore conservava, oltre alla propria documentazione, l'archivio del Doge, una parte delle imbreviature dei notai e le cedole testamentarie. Nella cancelleria ducale si conservavano gli archivi dei principali organi dello Stato: Maggior consiglio, Minor consiglio, Signoria, Collegio, Quarantia e Senato, ad eccezione delle serie di carattere riservato, affidate alla Secreta.
Gli altri organi, salvo alcuni casi, conservavano direttamente la propria documentazione, secondo le due grandi ripartizioni degli uffici di San Marco, concentrati in parte all'interno del palazzo ducale e nell'area circostante la piazza, mentre gli uffici di Rialto, di carattere finanziario, avevano prevalentemente sede intorno al ponte. Il rogo che distrusse l'area realtina nel 1514 e i ripetuti incendi di palazzo ducale causarono la perdita di una parte consistente della documentazione. Ma, nonostante questi come altri episodi, gli archivi dei numerosi organi veneziani poterono in larga misura conservarsi, grazie ad un regime politico durato senza sconvolgimenti per un millennio.
Anche dopo la caduta della Serenissima, salvo qualche drastica operazione di scarto, le carte delle magistrature vennero conservate, per consentire il ricorso ai precedenti amministrativi, e perché era palese l'importanza delle fonti veneziane - quelle diplomatiche in primo luogo - per il mondo della cultura e dell'erudizione, ma prima ancora agli occhi dei sovrani che si succedettero nel governo dell'antica capitale.
Numerose serie, in particolare quelle conservate nella Secreta, vennero rinchiuse in casse e trasportate a Parigi, a Milano, a Vienna, seguendo il destino che in quei giorni affrontavano tanti manoscritti, libri, quadri e opere d'arte: nel 1797 per mano dei francesi, nel 1805 e 1866 ad opera degli austriaci, quest'ultima volta insieme a parte della documentazione dei principali uffici governativi.
Quasi tutti gli atti 'deportati' negli anni posti tra la fine della Repubblica e l'annessione del Veneto all'Italia (1866) vennero restituiti, in diverse fasi, sulla base di convenzioni o trattati internazionali, e ricollocati per quanto possibile nell'originaria sequenza; ma una traccia delle vicende subite permane ancora nelle segnature straniere, che si sovrappongono a quelle della cancelleria veneziana.
La concentrazione dei fondi avrebbe preso forma con la Restaurazione, sviluppando il progetto elaborato nel 1803 da Jacopo Chiodo, approvato da Vienna nel 1805, e di lì a poco interrotto per il mutar di regime.
In età napoleonica (Regno d'Italia, 1806-1814), l'ipotesi di un'unica concentrazione di fondi era stata abbandonata; nel 1807 si preferì la ripartizione degli archivi della Repubblica in tre grandi raggruppamenti artificiali, suddivisi in altrettante sedi: gli archivi politici, che costituivano il nucleo principale, nella scuola grande di S. Teodoro, sotto la direzione di Carlo Antonio Marin - il nonno di Ippolito Nievo, ritratto nelle Confessioni di un italiano - con il Chiodo quale coadiutore; i giudiziari nel convento di S. Giovanni Laterano; i demaniali o fiscali (finanziari) in un palazzo a San Provolo.
L'archivio notarile, in quel periodo riorganizzato secondo la normativa napoleonica, si trovava allora nelle «fabbriche nuove» di Rialto e solo a seguito di vari spostamenti sarebbe poi confluito nella sede dei Frari.
Chiodo, che aveva sostituito il Marin, morto all'inizio della Restaurazione, riprese il progetto stilato dieci anni prima, giungendo a consegnare di persona una supplica all'imperatore, in visita in quei giorni del novembre 1815 a Venezia, perché venisse istituito un archivio generale; la richiesta venne accolta un mese dopo. Con due sovrani rescritti di gabinetto del 13 dicembre 1815, si stabiliva che gli antichi archivi della Repubblica rimanessero distinti dagli archivi correnti del Governo austriaco; si incaricava poi il Chiodo di individuare una sede idonea ad accogliere unitariamente il patrimonio documentario.
Abbandonata l'ipotesi del monastero di S. Zaccaria cui da tempo si pensava e dove già era pervenuta una parti di documenti, ed esaminate e scartate altre possibilità, venne prescelto nel 18 17 il vastissimo convento francescano di S. Maria Gloriosa dei Frari, appartenuto, fino alla soppressione, ai minori conventuali.
Tra 1817 e 1822 venne realizzata la parte più consistente della concentrazione delle carte, destinata a proseguire in seguito - anche con fondi ottocenteschi - per opera del Chiodo e dei suoi successori, in particolare Teodoro Toderini e Bartolomeo Cecchetti dopo l'Unità. Nel 1884 fu acquisito per disposizione di legge l'archivio notarile fino al 1830. Iacopo Chiodo aveva curato personalmente il censimento e la riunione dei fondi, ma si era dedicato anche a stendere un piano sistematico, basato sulla sua esperienza di compilatore delle leggi, per riprodurre visivamente la struttura istituzionale veneziana nella sequenza della dislocazione degli archivi nei depositi.
Già nel secondo decennio dell'Ottocento i primi studiosi vennero eccezionalmente ammessi alla consultazione delle fonti veneziane - quelle diplomatiche in primo luogo - privilegio destinato sempre più spesso a ripetersi negli anni seguenti, fino all'apertura della sala di studio intorno al 1855. Eruditi italiani e stranieri furono i principali frequentatori nei decenni tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, dediti all'edizione a stampa delle grandi collezioni di documenti relativi alla storia dei rispettivi paesi, allo studio dei dispacci e delle relazioni degli ambasciatori, e delle fonti dei principali organi istituzionali veneziani.
I primi frequentatori della Scuola di paleografia, attiva dall'aprile del 1855, coincidevano in larga misura con il pubblico della sala di studio, tanto che questa, utilizzata per aula didattica, rimaneva chiusa nei giorni di lezione.
L'organizzazione dei fondi che Iacopo Chiodo aveva impresso all'Archivio - pur modificata a più riprese, sia negli anni del Cecchetti come in seguito, anche nei tempi più recenti, sia per l'arrivo di altri complessi documentari che per esigenze legate a lavori di ristrutturazione e restauro dei depositi - è stata in larga misura mantenuta.
La maggior parte degli strumenti per la ricerca è stata prodotta negli ultimi tre decenni del XIX e nei primi del XX secolo, sulla spinta di fornire una chiave d'accesso alle decine e decine di fondi affluiti negli anni nei depositi monumentali dei Frari. Pur con i molti limiti di tali inventari - in larga misura elenchi sommari che indicano la mera sequenza dei contenitori - essi continuano ancor oggi a garantire la consultazione di numerosi fondi antichi. Va notato come venissero allora denominati Indici, denominazione singolare per intendere inventari ed elenchi, ma in parte persistente ancora nell'uso comune.
Alla concentrazione dei fondi si accompagnò l'eliminazione delle carte ritenute inutili sul duplice versante della documentazione amministrativa e della ricerca storica, scarto che coinvolse principalmente le carte contabili e finanziarie della Repubblica come degli archivi ottocenteschi.
Numerose le descrizioni a stampa del patrimonio conservato dall'Archivio dei Frari: dalla prima di Giuseppe Cadorin nel 1847, a quelle pubblicate dal Toderini e soprattutto dal Cecchetti, nei volumi della Statistica. Tra 1937 e 1940, a ridosso della seconda guerra mondiale con tutte le difficoltà conseguenti, la guida del Da Mosto (tomo I) e (tomo II), tuttora alla base, insieme alla Guida generale, dell'orientamento nelle ricerche archivistiche.
A questi illustri precedenti si affianca ora, collegato al sito web, moreveneto, il sistema informativo dell'Archivio di Stato di Venezia; tale strumento - nel quale sono confluiti i dati di descrizione raccolti nei decenni passati, migrati dal precedente SIASVe - offre una rappresentazione multidimensionale del patrimonio archivistico, rendendo inoltre disponibili per la consultazione da remoto alcuni nuclei documentari in riproduzione digitale e gli strumenti per la ricerca elaborati tanto nel passato quanto nei tempi recenti.
Il documento originale più antico è un atto privato e risale all'anno 847; è una cartula testamenti di una donna, Maru; questo documento non fa parte di un fondo Diplomatico (come avviene invece in molti istituti archivistici), ma è conservato tra le carte dell'abbazia benedettina di S. Maria di Sesto al Reghena, o in silvis. Il registro pubblico più antico è il Liber plegiorum, prodotto in seno al Minor consiglio tra 1223 e 1229 e aggiornato al 1253, relativo ai plezii (mallevadori) e contenente atti di varia natura.
Parte della documentazione prodotta dagli antichi uffici o enti veneziani, ma non confluita all'Archivio di Stato per motivi di vendite, acquisti, dispersioni successive alla caduta della Repubblica, è conservata da altre istituzioni culturali veneziane: la Biblioteca nazionale marciana, la Biblioteca del civico museo Correr, la Fondazione Querini Stampalia, e presso numerosi analoghi istituti anche all'estero, nonché in alcuni archivi privati come eredità di casate patrizie.